"Credevo fosse facile farla finita. In fondo basta chiudere gli occhi, sporgersi finché non si perde l’equilibrio e lasciarsi andare. Invece no, maledetta me! Son qui, in bilico, gli occhi chiusi, ma non riesco a tendermi quel tanto che basta ad andare giù.
Non perdo l’equilibrio, e penso, penso… rivivendo con dei flashback la mia infanzia…"

Sul tavolino di un piccolo bar lungo la SP8, periferia di Roma, alla chiusura, il proprietario trova una lettera…

“Sono stanca! Da giorni mi braccano, non so più dove andare, cosa fare. Senza meta, vago per le strade deserte e mi sento male per aver buttato la mia vita. Il rimpianto e i rimorsi che ho accumulato in questi ultimi due anni mi hanno portato a prendere un’estrema decisione. Non merito comprensione, non merito un’altra occasione.


Quando verrà trovata questa lettera, io non ci sarò già più. Mamma, papà… perdonatemi se potete.

                                                                                                                                                                                                                                                                  Asha”

Roma, ore 11.05, commissariato di P.S.


«Ricordi a fine marzo, quando andai a Prato, a quel convegno del partito?»

«Non dirmi che…»

«Mi fecero bere…»

«Ettore!»

«Fammi parlare. Quando me ne andai, riuscivo a stento a tenere la strada. Mi accorsi all’ultimo momento di lei, stavo per investirla.»

«Lei… la ragazzina?»

«Credo. Non lo so. Ho ricordi confusi.»

«A questo punto, non puoi sostenere un interrogatorio.»


Asha, ultima di tre figli, genitori di origine albanese, trasferitisi in Italia da più di vent’anni. Ceto basso, mamma Nilde fa le pulizie negli uffici e nei negozi, mentre Cataldo, il padre, lavora in fabbrica.
I genitori hanno cercato di non far mancare niente ai figli, ma la quasi totalità dei loro stipendi serve per l’affitto - vivono in una casa di tre stanze nel centro storico di Torino - e a pagare le bollette. Rimane così poco o nulla. La loro è una casa modesta, con mobili oramai datati che cadono a pezzi. 

Inevitabile non pensare a ciò che ha tentato qualche giorno prima. Mentre immobile fissa l’acqua increspata, pensa:

Che stupida sono. Ha ragione Deborah. Da bambina sognavo di innamorarmi di un bel ragazzo ricco, avere dei bambini, vivere tanti bei momenti felici. Che stupida a desiderare ciò che non potevo avere. Come pensare che in famiglia non si accorgessero dei cambiamenti, dei vestiti che compravo, del telefonino e dei soldi che maneggiavo.

Di nuovo, i ricordi della sua vecchia vita riaffiorano; ripensa a quando decise di scappare, cambiare città, vivere di espedienti, rendendosi conto di quanto tempo sia passato. Un anno lontano dagli affetti, senza sapere se i suoi genitori, i suoi fratelli, stessero bene. Si rende conto ancora una volta di aver buttato la sua vita, pensa di ricompiere quel gesto.


«Ma non vi hanno mai fermate, controllate. Dove vivevate?»
«No. Scoprimmo che c’erano un sacco di ragazzine nella nostra stessa situazione, ne conoscemmo alcune grazie a internet. Ci si aiutava a vicenda. Io avevo paura che i miei continuassero a cercarmi, quindi cambiai colore e taglio di capelli, nascosi un neo sul sopracciglio, la mia amica mi procurò una carta d’identità falsa, e voilà.»

«Dottore, venga subito. Asha sta male, rischia di perdere il bambino!»

Chiani, preso alla sprovvista, risponde di non sapere di cosa stesse parlando.

«Brutto stronzo, di chi sto parlando? Della ragazzina che hai messo incinta, e che per colpa tua forse muore, insieme a tuo figlio. Ma se le succede qualcosa, giuro che te ne pentirai.»

Arriva nel frattempo il medico. E mentre le prestano i primi soccorsi, chiede a quale ospedale la portano, riferendolo a Chiani.

«E vedi di sbrigarti, paparino!»

Chiani suda freddo, e senza pensare di avvertire Nesi né i ragazzi, lascia tutto e corre in ospedale.


«Per quanto riguarda l’altra indagine, concordo sulla separazione dei due filoni, ma attenzione. Potrebbero intrecciarsi. E mi spiego. Questi ragazzini si concedono per pochi spiccioli, una ricarica… al massimo un telefonino, un iPod, un capo d’abbigliamento firmato. Se esiste un’organizzazione dedita allo sfruttamento minorile, potrebbero essere un problema per loro. Parliamoci chiaro: ammettiamo che io, nella mia posizione, sia alla ricerca di minorenni, mica me li andrei a cercare per strada, potendo pagare. Per un rapporto sessuale con un minore ci sono depravati disposti a pagare cifre astronomiche, in base alla prestazione richiesta, che partono da un minimo di cinquecento euro, per arrivare anche a migliaia di euro. Quindi temo che questi ragazzini siano in pericolo. Fate attenzione alla frase in cui Giada dice di essere stanca perché braccata. Braccata da chi, se non questi criminali? E se sono riusciti a risalire a lei, allora anche tutti gli altri sono in pericolo. Vi garantisco che un semplice operaio o impiegato non è in grado di pagare certe cifre per un rapporto, se non costretto, ma se esiste un’alternativa… Due anni fa abbiamo eseguito uno screening approfondito sul fenomeno, e abbiamo potuto constatare che la pedo-pornografia è uno dei settori che rendono di più. I risultati della ricerca li abbiamo pubblicati su diverse riviste e siti specializzati.»

I Mekong boys


Giugno 2000.

Lee Dong, uno degli uomini più ricchi del Sud-est asiatico, viene rapito da un’organizzazione criminale, dedita alla tratta di minori e specializzata in rapimenti. Lo tengono prigioniero lungo le rive del fiume Mekong, e rimane nelle loro mani per settimane.

Assiste impotente alla compravendita di decine di bambini, ceduti per pochi dollari dalle stesse famiglie, tenuti in stato di schiavitù e venduti a pedofili senza scrupoli. 

Approfittando di uno dei tanti spostamenti che la banda compie periodicamente, scappa, aiutato da una delle bambine tenute in stato di schiavitù, di nome Su Ning. La porta con sé.

Braccato dai criminali lungo le rive del fiume Mekong, riesce ad appropriarsi di una barca e, convinto di essere riuscito a salvarsi, è felice. Si accorge solo dopo un po’ che Su Ning, per fargli da scudo, è stata ferita a morte. Prima che gli muoia fra le braccia, giura che l’avrebbe vendicata.

Lee Dong, tornato salvo a casa, mantiene fede al giuramento. Scopre tutto sull’organizzazione criminale e, assoldato un gruppo di mercenari, torna nella foresta dove si nascondono. Li fa ammazzare tutti, tranne uno, che ha il compito di portare un messaggio al capo dell’organizzazione: “Questa è la fine che vi attende, se oserete rimettere piede qui!”

Libera una trentina fra bambini e ragazzini, tutti vittime di abusi sessuali, di età compresa fra i cinque e i tredici anni. Li riporta alle famiglie, ma quasi tutti vengono rifiutati dai genitori. A causa degli abusi subìti, non potevano essere più venduti, e quindi erano solo un peso per loro.

Dong decide di prendersene cura. Gli dà una casa, li fa studiare. Gli dona una nuova vita.

2011. I ragazzi sono oramai cresciuti.

I più grandi sono all’Università, gli altri studiano.

All’improvviso, l’organizzazione criminale, passata nel frattempo sotto la guida di De Leo, torna a far razzia di giovani innocenti. Lee Dong viene ammazzato, come monito a non intromettersi nei loro affari.

Ma questo scatena la vendetta dei figliocci. 

Dong lascia parte della sua eredità alla fondazione che aveva in affidamento i ragazzi. 

Loro decidono di usarla per vendicare il loro benefattore. 

Nascono così i Mekong Boys. Fra i ragazzi salvati da Dong c’è chi, abbandona gli studi per iniziare un addestramento di tipo militare, e chi - gli universitari - si occupa della pianificazione e della ricerca dei criminali. Ma arruolano anche tanti altri ragazzi che, a causa delle violenze subite da piccoli, ripudiati dalle famiglie, sono costretti a vivere nei ghetti delle grandi città, dormendo per strada, vivendo di espedienti, chiedendo l’elemosina, o continuando a prostituirsi.

Dopo un anno, ha inizio la loro battaglia. 

Riescono a cacciare nuovamente l’organizzazione dalle loro terre, ma questo non li soddisfa.

Vogliono vendetta. Vogliono giustizia. 

Sognano che nessun bambino più subisca ciò che hanno dovuto subire loro.

Ma sanno che la giustizia umana non sarebbe stata in grado di fermarli, Quindi decidono farlo loro.

A modo loro!


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